Squid Game è il fenomeno del momento. Meme sui social, bambini che, senza averlo visto, replicano i giochi (e a volte arrivano i carabinieri). Una serie che probabilmente sarà la più guardata al mondo. Anche se in tante nazioni, compresa l’Italia, devi leggere i sottotitoli perchè è rimasta in coreano.

Diciamolo subito: Squid Game non è nulla di nuovo. Ma è piacevole lo stesso. Chi scrive pensa che se la serie è guardata con gli occhi giusti e le giuste basi culturali, è una bella denuncia politica. Le persone piene di debiti, il nuovo “dio denaro”, la più alta forma di democrazia in cui nessuno è obbligato ma è convinto di “scegliere” liberamente.

Squid Game, il peggiore lato della democrazia (e del capitalismo)

Lo so, suona un po’ forte. Sforzandomi di non spoilerare nulla, la cosa che mi è venuta in mente, appena ho finito il nono episodio, è però stato questo. Aldilà delle sceniche maschere, tute rosse, divise dei partecipanti… tutta la serie si fonda sulla possibilità di scelta dei partecipanti. “Nessuno è stato obbligato” diventa quasi un mantra e una scusante. E la mente può volare su tante questioni “reali”, in cui il cittadino non è “mai obbligato” ma, di fatto, si sente di esserlo.

Le regole sono uguali per tutti, il ceto sociale, il sesso o l’età non contano in questo “gioco” in cui rischi la vita. “Uno vale uno”, direbbe qualche alfiere ultra-democratico.

Il Dio denaro

E’ giusto mettere a repentaglio la propria vita per i soldi? Il premio finale, al cambio attuale, è di 33 milioni di euro. E’ la classica situazione in cui quasi tutti risponderebbero di no. Il premio è lì, sulla testa dei vincitori, illuminato. Ha preso il posto di Dio e sotto, alla fine, tutti fanno di tutto per averlo. Sono pronti a uccidere per averlo o a farsi uccidere pur di provarci. Una immagine simbolica che non può e non deve passare inosservata.

E’ quasi automatico puntare il dito su chi ha accettato questi giochi estremi, piuttosto a chi ha messo il denaro in palio e creato il gioco. Un ribaltamento della realtà? Forse si. Giustificato dal sempre democratico “nessuno è stato obbligato a giocare”. Bel punto di vista su cui riflettere.

La situazione reale in Corea del Sud

Dopo la seconda guerra mondiale ha avuto un boom economico. Ma oggi è lo Stato asiatico con la peggiore disparità di reddito. La disoccupazione è molto alta, soprattutto quella giovanile. I prezzi delle case, a Seoul per esempio, sono cresciuti del 50%. Un clima che nel film viene chiamato “inferno”, in cui tutti cercano di fare soldi facili in poco tempo. Per sentirsi arrivati.

In questo clima i più coraggiosi cercano ancora di investire, spesso senza avere i fondi e finendo o in mano a veri e propri usurai, oppure creando un debito da record. La paura che tutto precipiti ancora di più, ad esempio, ha spinto molte famiglie a rovinarsi chiedendo mutui per comprare case con questi prezzi folli. La paura che il costo degli immobili continui ad aumentare la fa padrona. I prestiti totali dei cittadini sud coreani sono pari a circa il 270% del loro reddito annuo, dice la banca centrale sudcoreana.

Nulla è quindi lasciato al caso in Squid Game. Le critiche sociali ci sono, seppur estremizzate. Basta saperle cogliere e, invece di puntare il dito sulla “violenza della serie”, guardarci dentro. Se si perdesse il tempo per leggerne le critiche sociali, sarebbe ben più costruttivo rispetto al controllo di quanti bambini sono tornati a giocare a “un, due, tre stella“.

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