Roma, da sempre, incarna il modello ideale da raggiungere per ogni civiltà umana.
L’Urbe, come imperituro prototipo imperiale per i numerosi epigoni europei. Zar di tutte le Russie, Asburgo e persino ottomani. Ma anche Spagna, Francia e Inghilterra. La nostra Roma è il topos della missione civilizzatrice del Mondo. L’assiduo ricorso a Virgilio negli Usa, come nel vecchio Impero Britannico, ci dice che forse, noi contemporanei, siamo tutti figli di Enea.
Per secoli, l’Impero Romano è stato l’unico Impero, o almeno, l’unico modello d’imperio per la maggior parte degli europei e degli occidentali. Essere un impero voleva dire essere come Roma. Di “Roma” poteva essercene una sola, ma ciò non impediva di costruirne un’altra a sua immagine, così come un’opera d’arte può essere riprodotta molte volte. Meglio ancora se ci si poteva considerare i successori di Roma: ereditarne la gloria e la missione civilizzatrice, sviluppandone così la tradizione imperiale (renovatio et translatio imperii).
Ogni comunità che aspiri alla potenza ha bisogno di una radice storica. Di una credenza coltivata e condivisa dalle élite. Le quali provvederanno a organizzarne il culto di massa. Rito a conferma del mito. Le collettività si giurano tali nelle liturgie dedicate: canto dell’inno, fremito della bandiera, corale recita del rosario laico che le distingue. La celebrazione dell’identità comune è certificazione di esistere per la causa patria di cui ci si offre transitori custodi. Premessa e conseguenza della propria vitalità geopolitica. Fondata su una tradizione necessariamente adattata, perché la storia non ha senso se non gliela si dà. Ed è la storia che ci lega nel racconto, orientando il nostro convivere. Creando la consuetudine, malta comunitaria che consolida le nazioni. Spezzato il vincolo d’origine, il gruppo umano che vi sacrificava si sfalda.
Si usa il passato per legittimare l’oggi, con la speranza di progettare il domani. Senza mito e senza rito non ne saremmo che parte passiva. Resterebbe il pragmatismo quotidiano, meccanico presente individuale che abolisce il futuro collettivo. La fine della storia insomma, e con essa la nostra inconsistenza.
È la potenza che crea il mito. E viceversa. Lo spazio del mito coincide con lo spazio della potenza. Corrispondenza biunivoca: quanto più sei potente, tanto più ami legittimarti tale.
Vale per la Pax Americana come valeva per la Pax Romana. Pur se il soft power “a stelle e strisce” attende ancora il suo Virgilio. Siamo nel girone degli imperi. Oggi come ieri le grandi potenze sono repubbliche imperiali.
Mentre gli europei, italiani in testa, imbevuti di economicismo, consegnano ai musei le memorie delle trascorse glorie, la cultura anglosassone si percepisce “Impero”; e in Occidente, quando si allude ad una potenza imperiale, si fa riferimento all’unica e più grande di tutte: Roma.
Aristide, Virgilio, Polibio e altri poeti greci e latini, mettevano in risalto quella che in seguito sarebbe stata chiamata la «missione civilizzatrice» di Roma. Marchio che divenne la parola chiave di tutti gli imperi occidentali successivi, la giustificazione primaria del loro dominio su altri popoli, molti dei quali erano arretrati e primitivi. Proprio come i romani consideravano galli, franchi e longobardi, ovvero dei barbari da essi civilizzati (cioè romanizzati). Ma Roma non era solo una potenza civilizzatrice. Era anche una potenza cristianizzante. Per i commentatori del tempo e per quelli successivi, come i padri della Chiesa del primo cristianesimo, non era un caso che Gesù fosse nato cittadino romano e che un altro cittadino dell’impero, Paolo, avesse potuto usare le risorse di Roma per diffondervi la fede. Insomma, “Roma sposa di Cristo, e Cristo sposo di Roma”. Ancor più notevole era il fatto che fosse stato un imperatore romano, Costantino, a legittimare e promuovere la religione cristiana del credo niceno; mentre un altro imperatore, Teodosio, ne fece con un Editto la prima religione ufficiale di Stato. Altri imperi europei seguirono quell’esempio. Gli Asburgo, sia il ramo spagnolo-portoghese che quello austriaco, tenevano particolarmente a esibire le loro credenziali romane.
E ne avevano ben donde, in qualità di Sacri Romani Imperatori. Essi adottarono come simbolo l’aquila bicefala e ricondussero la loro stirpe al fondatore troiano di Roma, Enea, nonché a Giulio Cesare. Al pari dei romani, gli Asburgo aspiravano all’impero globale e adottarono il motto Aeiou (Austria est imperare orbi universo; ovvero: l’Austria dominerà il mondo intero). Inoltre, si consideravano il più sacro degli imperi cristiani, antemurale Christianitatis (baluardo della cristianità), che intendeva difendere l’Europa dai «turchi infedeli».
Anche i russi si considerano successori di Roma, e anch’essi presero a simbolo l’aquila imperiale bicefala (utilizzata da molti stati dell’Europa orientale). Quando Costantinopoli cadde, il 29 maggio del 1453, Mosca fu proclamata Terza Roma e nuovo centro dell’Impero Romano d’Oriente. «Cesare» divenne Zar, come nelle lande germanofone era divenuto Kaiser. Il Mito di Roma sembra non avere fine.
L’imperium sine fine fu assegnato ai romani dalla suprema autorità olimpica di Giove. Così lo descrive Virgilio nell’Eneide per la prima volta, parlando di Roma come di una potenza senza fine, sia nella sua dimensione spaziale che temporale. Perché la Roma di Augusto si vuole urbis et orbis, città ed ecumene, ed insieme Aeterna; capace di fermare il tempo grazie alla protezione degli Dei prima, e del Dio unico dopo. Caput Mundi et Fidei. Città-Civiltà Universale.
Universalismo, civilizzazione e cristianità: questi i tre grandi princìpi che i successivi imperi europei mutuarono da Roma. Al pari del loro modello, essi aspiravano a dominare l’orbis terrarum, l’intero mondo conosciuto. In via di principio, vi poteva essere solo un impero universale con la missione di civilizzare il globo.
Insomma, tutti i Miti portano a Roma
Non c’è impero degno del proprio nome, non solo in Occidente, che non si sia richiamato a Roma; fosse solo per aggiungersi un “quarto di nobiltà”.
Da Roma alla Seconda Roma (Costantinopoli), le rispettive romanità occidentali e orientali si sono diramate lungo la Storia, fino ad arrivare alle attuali Terza e Quarta Roma (Mosca e Washington).
Se il Sacro Romano Impero è oggi il riferimento dominante per un futuro quanto ipotetico stato federale europeo, non dimeno non possiamo non considerare che tutte le potenze in gioco sullo scacchiere internazionale sono repubbliche imperiali derivate o ispirate da Roma.
Per tutto l’Antico Regime, il modello politico dominate è stato retto da un Pontefice e da un Imperatore romano. Successivamente, con il nuovo regime liberale le cose non sono cambiate poi molto. Dal modello del “Dominus” dioclezianeo si è tornati alla Repubblica imperiale augustea. Ai molteplici Reich germanici ispirati alla Romanità carolingia ed ottoniana si affiancarono le diverse vite della “république” imperiale francese, che sia nella veste giacobina che in quella bonapartista, non possiamo non ritrovare delle “impronte romane”. Dopo la fine del bonapartismo si assistette all’affermazione della Pax Britannica, ispirata anch’essa all’unico Imperio globale dei mari che lo aveva preceduto, quello dell’Urbe.
Oggi persino a Pechino – sull’onda della leggendaria «legione perduta» da Crasso a Carre (53 a.C.), i cui dispersi superstiti sarebbero finiti in Cina – si enfatizzano i contatti veri o presunti con l’Imperium lungo la via della seta, mentre si traduce a fini pratici con l’adozione del giustinianeo Codex Iuris Civilis nel proprio ordinamento giuridico; ma anche con Livio e Cicerone, riprodotti sempre più nelle accademie cinesi affianco a Sun Tzu e Confucio.
Ma da quasi due millenni qualcuno era già a Roma con “propositi cosmopoliti e universali”: il Papa. Il Romano Pontefice cristiano infatti non è solo erede di Pietro ma anche di Numa. Nel segno di Costantino, imperatore e santo, la cristianità romana si è così inserita a suo ecumenico modo nel solco tracciato dai Cesari. Stipula il gregoriano Dictatus Papae: «Soltanto il papa può usare le insegne imperiali». “Costantinismo puro”. Eredità culturale su cui i due viventi papi si dividono. Flagello per Bergoglio. Orgoglio per Ratzinger.
Potrà il papato in futuro continuare nel solco di Costantino?
Lecito dubitarne. Più arduo tuttavia sbarazzarsi, per pura volontà papale (Francesco I), di una così profonda tradizione romana insita nella Chiesa, autoidentificata con il lascito imperiale; custodia e condizione stessa della propaganda della fede. Ma la “translatio imperii” non è meccanica. Gramsci ci metteva in guardia sulla «storia feticistica». Con il senno dell’oggi, il mito di Roma sembra portar male a chi ne abusa, beffandosi della storia. Tuttavia nei nostri tempi, il Mito dell’Urbe, oltre che eterno, appare ancora reale.