Mario Tuti è nato a Empoli, ha 75 anni e fu fondatore del Fronte Nazionale Rivoluzionario, che a metà degli Anni Settanta aderisce alla lotta armata. Condannato a due ergastoli, più 14 anni per aver guidato la rivolta a Porto Azzurro nell’87, esce dal carcere. Oggi è semilibero, e avrebbe dovuto essere presente al Torino Film Festival, per una pellicola che sarà presentata e in cui ha partecipato, come testimone di quegli anni.
Mario Tuti ha aspettato fino all’ultimo l’autorizzazione a presenziare a Torino, ma non è mai arrivata. Per questo, questa mattina in cui non è potuto partire, ha deciso di scrivere una “lettera aperta” al pubblico del Torino Film Festival. Che riportiamo integralmente.
Il documentario su Mario Tuti
Selezionato per la categoria “Miglior Documentario”, il titolo è “Corpo dei giorni”, e sarà proiettato in prima ufficiale il prossimo 27 novembre per raccontare al pubblico del Festival una storia non semplice: l’incontro appunto con l’ex terrorista nero Mario Tuti, mai pentito.
Il documentario, girato nella tenuta della maremma laziale in cui Tuti viene ospitato in seguito al permesso straordinario legato all’emergenza Covid, riapre pagine drammatiche e, tra le dolci immagini dei campi e dell’addestramento dei cavalli, fa intravedere i lati oscuri della storia del nostro Paese.
La lettera aperta di Mario Tuti al pubblico del Torino Film Festival
Dove la parola manca, dove essa viene meno – per censura o complicità – non può esserci verità, che quest’ultima attende d’essere nominata dalla parola. La verità infatti non è un’evidenza, tutt’altro. È spesso qualcosa che tutta la società, o almeno quel fondamentale momento del potere che è la comunicazione, si accorda per censurare.
Ci sono verità che sollevano problemi senza soluzione, che presuppongono un cambiamento radicale della società fino dalle sue fondamenta. Il carcere è una di queste verità. Esso infatti riguarda non soltanto coloro che lo vivono, ma tutti quanti.
Il carcere è un luogo di infamia, sofferenza e abbrutimento. Non ha nulla a che fare con l’espiazione della colpa né tantomeno con la redenzione del prigioniero. Come tutte le verità, anche questa non necessita di essere dimostrata. Tutto tende a dimostrare il contrario, ovvero che si tratta di un luogo perfettibile, strutturato da una tensione di giustizia. Ma si tratta di un’idea soltanto ripetuta, non certo vera. Chiunque si prenda la briga o abbia la disgrazia di conoscere il carcere non ha bisogno di dimostrazioni o prove, sa della falsità di ciò che viene detto e della verità di ciò che non viene detto.
D’altronde quelli che hanno conosciuto il carcere dividono il mondo in due grandi gruppi. Loro e gli altri: è inevitabile, non lo scelgono, è una deformazione della loro anima che produce per gli occhi e per il cuore due immagini diverse della stessa realtà umana. Non è dissociazione né schizofrenia, è semplicemente la scoperta d’essere altro. D’aver varcato una soglia, alchemica prima che sociale, sicuramente morale.
Come reagire al carcere è il problema concreto di chi deve confrontarsi con esso. La maggioranza dei toccati finisce per soccombere: subisce l’abbrutimento, si adatta, vittima e complice al tempo stesso.
È il destino che tocca a coloro che erano stati predisposti all’errore e alla colpa già prima, nell’arena di questa società che rinfaccia ogni suo dono. Questo tipo di detenuto è l’immagine-strofinaccio del colpevole, usata per pulire la faccia sporca del finto innocente.
Abbiamo poi una categoria di persone che tentano di sottrarsi al destino di vittime del carcere mobilitando tutte le loro risorse materiali (per esempio la corruzione) e intellettuali (per esempio il pentimento o il tradimento: liberi loro in cambio di tanti altri da punire).
Non è questione di buona o cattiva fede. La stessa “legislazione premiale”, che pure offre diritti e speranze, in realtà è soltanto uno strumento di manipolazione e controllo dei detenuti, costretti a vendersi per un’illusione di libertà da cui non si è certo elevati, ma si è senza colpa e senza scampo condannati.
E tra queste condanne accessorie – perché non basta il carcere e la pena – c’è anche la parola, il racconto, che deve essere consono a quanto richiedono giudici, direttori, psicologi, educatori, assistenti sociali, giornalisti, politici, religiosi: tutta questa gente per bene che ha bisogno di sentirsi rassicurata, e lodata, nella sua bontà…
Ne fanno testo e prova gli infiniti libri e le storie e le interviste ed i film sul carcere, dove piccoli delinquentelli e grandi criminali si confessano, accusano e si scusano. E così la verità del carcere e della pena, il comunicare il carcere e la pena, vengono minati da un’ineludibile ambiguità: da una parte sono difesa e discorso, dall’altra è il tradimento della propria natura più intima. Anche se attacca la società carceraria, la parola dei detenuti denuncia loro stessi insieme al loro bisogno di libertà – condizionata dai tanti dominatori e manipolatori dei corpi e delle coscienze!
L’altro modo di resistere al carcere è quello di conservare la propria identità, di restare attaccato a ciò che ti ha fatto condannare, non tanto agli atti quanto alla personalità, all’icona del delinquente, dipinta da mani non umane.
Conservare la propria identità trasgressiva significa testimoniare che il carcere non riesce a umiliarti, ma anche gridare che la società tutta continua a essere sbagliata: chi paga per la propria diversità irriducibile lo dimostra!
Persino gli effetti negativi (divieti, punizioni, censure, torture, il doversi fare la galera fino all’ultimo giorno – fosse pure quel 31 dicembre 9999 che per le necessità dei tabulati elettronici ha sostituito il “fine pena mai” dell’ergastolo) possono essere capitalizzati: come coscienza, fratellanza, solidarietà, quella solidarietà nel carcere e nella pena che resta a volte quando tutto il resto è ormai perduto – e che può ancora tutto salvare.
Certo è difficile stabilire il confine tra orgoglio e amor proprio da una parte e crescita di una consapevolezza umana dall’altra. Difficile soltanto sul piano delle generalizzazioni, caso per caso si vede bene.
Perciò lo strepito di chi accusa che non è giusto concedere ai prigionieri la parola o s’indigna perché un prigioniero non dichiari di vergognarsi di se stesso e non chieda perdono a una società che continua a sembrargli ingiusta, è scandalosamente deprimente.
È un segno dell’arroganza brutale di uomini che si credono liberi e invece sono più prigionieri di tutti, prigionieri di sentimenti meschini che portano a pretende abiure e penitenzialismi in cambio di una libertà tanto vana quanto effimera…
Da tutto questo nasce l’urgenza della parola come via di scampo tra l’infamia e il nulla, come sogno o delirio o preghiera o sghignazzo…
È una comunicazione necessaria, quella che nasce in condizioni simili. Necessaria per noi, per cercare di liberare almeno la parola e la voce, e anche per loro, per quelli che si credono liberi ma non sono completamente accecati dalla loro pretesa di essere dispensatori di verità e giustizia.
A loro, e a Henry, Gianvito, Nikola, Saverio, ho provato a rivolgermi dando la disponibilità a questo progetto.
E già 30 anni fa – per l’inaugurazione del Festival teatrale di Santarcangelo, dove un lavoro messo in scena coi miei compagni del carcere di Livorno fu censurato e vietato – scrivevo che c’è sempre chi vuol provare a scendere nella fossa dei serpenti, negli inferi del carcere e della pena: per un brivido d’emozione, per la vanità di accostarsi ai personaggi della cronaca nera, o anche per quelle buone intenzioni di cui è lastricato ogni inferno… Accorgendosi poi che lo sguardo del prigioniero è intollerabile per chi si crede ancora libero: intollerabile come la verità urlata, il ghigno irridente, le epigrafi incancellabili dei ricordi, le ferite inferte a vicenda nella carne e nel cuore.
E nulla mi pare che ancor oggi sia cambiato, in questo Film Festival, con questo Corpo dei giorni, questo tentativo di snidare la serpe, di ascoltare i ringhi di un vecchio come rito di passaggio oltre i territori delle illusioni e delle disperazioni, per raggiungere l’impervia interiorità della propria coscienza fuggiasca…
E sempre incombente la censura, i divieti, con una malcelata nostalgia dei roghi dei libri, e per noi, i maledetti, i reprobi, i criminali, i fascisti. Da seppellire in terra sconsacrata, come gli eretici, come gli attori, come gli ergastolani…
O più banalmente da tenere lontani – che non disturbino lo sguardo e la coscienza, che non disturbino lo spettacolo – ad esempio rifiutandomi la licenza per venire a vedere questo lungometraggio.
Sì, ti offrono parole, l’ascolto, il dialogo… Un’occasione preziosa, un’arma brillante, sicura per confrontarti col carcere, con la società, col tuo passato… ma prima te ne hanno misurata la lama, spezzata la punta, ottuso il filo!
Parlare allora è difficile, l’ansia di un fiato che si spezza, il gesto di ritirare, trattenere la parola già detta… Uscito dal rifugio sicuro della tua solitudine, del tuo silenzio, con gli occhi a cercare altri sguardi, le telecamere puntate sul volto, ti vedono barcollare mentre cerchi di sfuggire al destino scontato, a girare impazzito nel cerchio delle storie e dei ricordi, a volte forzandolo e sparire verso un mondo diverso, che poco alla volta rimanda dei suoni, colori, passioni… sogni di vita barattati con le lunghe ombre di un ieri che è duro a morire… Una vita che si rappresenta e si racconta, “giocando” anche a fare il cattivo.
Per loro non conta!
Ed ecco che ti colpiscono: c’è sempre chi ha capito, studiato, stabilito, e dettato a sentenza!
Una condanna in effige, in un video, in un gioco di immagini e voci – rubate, negate, distorte. Resta comunque l’impronta di una fede e una storia, un’eco che domani qualcuno forse coglierà.
Ma le scimmie della rivoluzione hanno vinto, si sono assise ai piedi degli scranni del potere e in cambio di incarichi e prebende hanno ammonito che l’unica saggezza rimasta era l’abiura, la resa, l’ipocrisia…
E pochi siamo rimasti, noi che siamo riusciti a sopravvivere alla violenza e al carcere, e in un certo senso a noi stessi… Eppure tutto non è stato invano, restano le cicatrici nella memoria e nel cuore, i segni di un cammino che molti hanno pagato con la vita, io sto pagando con la mia libertà…
Ma c’è una continuità da assicurare, c’è ancora un anello da aggiungere alla catena del sacrificio… E non chiedetemi perché: non saprei rispondere altro che perché bisogna, perché questa è pur sempre la parte migliore che ho scelto per me!
Come la parte che ho giocato in questo video, comunque lo vediate!
La Farnesiana, 26 novembre 2022, Mario Tuti.