Nella gerarchia dei mari semichiusi, il Mediterraneo ‘euroarabo’ aumenta la sua importanza su scala globale. Una vera e propria cerniera collegante l’Atlantico fino all’Oceano Indiano, tramite Mar Rosso e canale di Suez. Per questo motivo è definito “medioceano”.

Logica vorrebbe che le maggiori Marine europee fossero oggi in grado di recuperarvi quote d’influenza perdute, essendo la superpotenza Usa concentrata sul versante asiatico-pacifico.

Il Mare nostrum è oggi secondario nella strategia degli Usa. Centrale è solo il controllo dei colli di bottiglia che ne garantiscono l’accessibilità. Impegnata a difendere su scala planetaria il primato aeronavale che le permette di controllare le arterie commerciali del mare, di attingere ai suoi tesori minerari ed energetici, di vegliare sulle reti sottomarine da cui dipende la dimensione cibernetica, mantenendo aperti o all’occorrenza sbarrando al nemico i vitali gangli transoceanici.

Ovvero i colli di bottiglia (choke points) dei tre ‘mediterranei’ mondiali, da Panamá a Gibilterra, da Suez a Malacca.

Eppure mai come oggi il Mare Nostrum è altrui

Non solo sotto il profilo commerciale, ma anche nella gerarchia delle flotte militari. Per quanto residuale rispetto alla guerra fredda, l’impronta della VI flotta Usa, basata a Napoli e a Gaeta, vi resta decisiva per il controllo onnipresente sui nostri piani strategici.

Ergo, la potenza talassocratica americana rimane fuori discussione.

Con al seguito lo sperimentato fratello d’armi britannico, il quale, anche dopo la BREXIT, rimane abbarbicato alle basi di Gibilterra e di Cipro. Al suo medesimo rango la Francia, con la sua Marine Nationale “nucleare”.

A distanza, Italia e Spagna, poi la Turchia. Alle quali occorre aggiungere le petromonarchie del Golfo, che hanno riscoperto l’ al-Bahr al-Rumi (“Mare Romano”, il mediterraneo per gli islamici) sotto il profilo economico. Ma soprattutto quale vettore delle loro proiezioni di potenza nelle partite geopolitiche nordafricane, a prevenire ulteriori «primavere arabe».

Complica l’equazione il ritorno della Russia, attratta verso i mari caldi dal relativo disimpegno americano e dalla pelosa intesa con Ankara, dopo la riconquista della Crimea e sotto la sigla della sua «guerra al terrorismo» in Siria.

Va poi considerato l’avvento della Cina, per ora come mera potenza commerciale, ma in prospettiva da attore strategico, le esercitazioni navali congiunte con la Marina russa, la proiettano come futuro primo attore in un mare sempre meno “nostro”.

Sfortunatamente per noi il Mediterraneo “non bagna” l’Italia

La geografia fisica parla al condizionale. Disegna la centralità della Penisola nella fenditura acquatica che separa Eurasia e Africa, quel fuso stretto fra Gibilterra, Dardanelli e Suez che connette l’Oceano Atlantico all’Indiano (definito per questo ‘medio oceano’). “Mare nostrum” secondo i romani, Mar Bianco (Akdeniz) per i turchi, Mar Grande (Yam Gadol) per gli ebrei, Mare Romano (al-Bahr al-Rumi) per gli arabi: frammenti di un’onomastica che muta senso allo spazio a seconda dello sguardo che lo battezza.

Per ora il Mediterraneo continua ad essere la misura di ciò che l’Italia potrebbe essere, fu, ma non è.

La storia si esprime al passato remoto. Risveglia la memoria dei secoli in cui l’italica mediterraneità fu leva geopolitica. Qui fiorì l’unico impero circummediterraneo, quello di Roma, che nella nostalgica iperbole di Rutilio Namaziano «di tutto il mondo fece una città». Il Mare nostrum, bene comune protetto dalla flotta dell’Urbe(non distante dall’odierna VI flotta Usa), a tutela dei commerci imperniati sulla capitale, avendo liquidato le rivali potenze marittime e represso i pirati che ne infestavano le acque.

Mediterraneo come tavola pitagorica di una civiltà, la ‘Romania’, che vi scavò un fascio littorio di rotte marittime annesse alle vie di terra e tracciò la mappa di un mondo in sé conchiuso, dalla Renania ai margini del Sahara, dall’Iberia al Levante.

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