Una scritta nera su sfondo bianco, in rosso “sconfitta”, appesa nella notte a Torino, nel cuore della Torino operaia. Recita: “Iveco Indiana, sconfitta italiana”. È il messaggio lanciato da CasaPound per denunciare la cessione dello storico marchio torinese al colosso indiano Tata Group.

Lo striscione è solo uno dei tanti comparsi in decine di città italiane, da Milano a Napoli, in una protesta che affonda le radici in un malessere profondo: la sensazione, sempre più diffusa, che l’Italia stia perdendo pezzo dopo pezzo il suo patrimonio industriale.

Il cuore della protesta: Torino, città operaia

Non è un caso che Torino sia stata scelta come teatro principale dell’iniziativa. Iveco, nata nel 1975 dalla fusione di cinque marchi storici (tra cui Fiat Veicoli Industriali), è da sempre un simbolo dell’industria torinese. E proprio a Torino, in fondo a Corso Giulio Cesare, si trova una delle sedi più rappresentative dell’azienda.

Per CasaPound, la vendita a Tata rappresenta l’ennesima “resa” dell’Italia, che cede uno dei suoi marchi storici in cambio di promesse di investimenti e rilancio, che troppo spesso non si concretizzano.

CasaPound: “Lo Stato resta a guardare”

Nel comunicato diffuso dal movimento, le parole sono dure: “Ci hanno venduto ancora una volta, nel silenzio complice delle istituzioni. Parlano di operazione industriale, ma è solo l’ennesima fuga degli Agnelli con le tasche piene e le fabbriche svuotate.”

Una critica non solo alla famiglia storica di Fiat, ma soprattutto allo Stato italiano, accusato di non usare gli strumenti a sua disposizione, come il Golden Power, per bloccare le acquisizioni straniere in settori strategici.

Sovranità industriale e nazionalizzazione: la proposta

CasaPound rilancia una proposta netta: nazionalizzare le imprese strategiche, a partire proprio da realtà come Iveco. Secondo il movimento, lasciare il controllo di aziende chiave a multinazionali estere significa perdere competenze, lavoro, identità.

La protesta, spiegano, è un gesto simbolico ma urgente: “Senza industria, non c’è nazione. Difendere Iveco significa difendere l’Italia.”

Un passato che si ripete?

L’Italia non è nuova a operazioni simili. Già negli anni ’90, la cessione di Alfa Romeo a Fiat fu accompagnata da polemiche e promesse di rilancio. Più recentemente, la fusione FCA-PSA ha trasformato un altro pilastro della manifattura italiana in una sigla internazionale: Stellantis.

In molti temono che anche in questo caso la storia si ripeta: un marchio venduto, posti a rischio, tecnologia e know-how che migrano altrove.

La battaglia simbolica inizia da uno striscione

Lo striscione appeso nella notte non cambierà le sorti di Iveco. Ma accende una luce su un tema spesso ignorato: quanto conta oggi, per l’Italia, avere il controllo delle sue fabbriche? In un mondo sempre più globalizzato, la sovranità industriale è ancora una questione nazionale? Chi ha firmato quell’appello notturno ha già una risposta chiara. Ora, la domanda è rivolta a tutti.

Storia e futuro

Lo stabilimento Iveco di Torino è erede diretto del polo industriale Fiat di Mirafiori, inaugurato nel 1939 e simbolo del miracolo economico italiano. Negli anni ’70, Iveco divenne uno dei marchi leader nel settore dei veicoli industriali, esportando tecnologia e camion in tutto il mondo. Un patrimonio non solo economico, ma anche culturale e identitario.

La domanda resta aperta: l’Italia può continuare a cedere i suoi marchi storici senza un progetto di rilancio industriale nazionale?
Per molti, lo striscione apparso a Torino è più che un gesto di protesta. È un segnale d’allarme.

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