(Adnkronos) – Kate Middleton, alla sua prima apparizione pubblica dopo la diagnosi di tumore, "ci restituisce un messaggio potente, di normalità e speranza, che arriva alle persone che stanno affrontando anche adesso, in questi giorni e in questi mesi, un trattamento anticancro. Succede quando personaggi pubblici di questa portata, magari loro malgrado ovviamente, decidono poi comunque di condividere il loro percorso con gli altri". E' la riflessione di Elisabetta Iannelli, segretario generale della Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia (Favo), che commenta all'Adnkronos Salute la scelta della principessa Catherine di rendere partecipi i cittadini britannici della malattia che sta affrontando e di come procede il suo cammino, fra "giorni buoni e giorni brutti", come ha scritto lei stessa ieri in un post in cui annunciava che sarebbe stata presente oggi con la famiglia alla parata per il compleanno del re, la cerimonia del 'Trooping the Colour'.  Kate "è un personaggio di primissima linea ed evidentemente non poteva rimanere indifferente rispetto alla pubblica opinione – osserva Iannelli – però mi sembra che la stia gestendo molto bene, con molta dignità e dando quel minimo di segnale che però ci fa capire come oggi chi si ammala di tumore intanto non è un morto che cammina, ma soprattutto ha bisogno dei suoi tempi, dei suoi spazi per poter tornare alla vita. Tutte le illazioni che sono state fatte in questi mesi, poco rispettose della persona, erano anche molto lontane dal conoscere qual è la realtà di chi ha una diagnosi oncologica e comincia a fare i trattamenti. Io non mi sono stupita minimamente del fatto che per alcuni mesi" la principessa del Galles "sia stata concentrata su se stessa, nell'intimità della propria famiglia, dei propri affetti".  "Chi conosce quello che succede dopo una diagnosi oncologica per averlo vissuto sulla propria pelle o per aver assistito una persona cara – prosegue – sa bene che almeno i primi sei mesi o l'anno che segue alla diagnosi sono comunque più o meno interamente occupati da trattamenti di diversa natura. C'è la chirurgia, la chemioterapia, la radioterapia. Nonostante i passi avanti fatti, sono comunque trattamenti tossici o invalidanti temporaneamente. Per cui il fatto che Kate si sia ritirata dalle scene per qualche mese mi sembra che sia stata una cosa ovvia". Pensando a quei giorni di silenzio iniziale da parte della famiglia reale e di enorme pressione dell'opinione pubblica, Iannelli fa notare che, "al di là dell'interesse morboso che ci può essere nei confronti di questi personaggi pubblici", anche nel voler sapere, nel voler cercare i segni della malattia sulla loro 'pelle', "io non escludo che ci sia anche una componente che è legata alla paura che fa ancora la parola cancro. Questi due elementi uniti hanno fatto sì che l'approccio fosse questo". Nel racconto della principessa, che spiega di fare progressi ma di non essere ancora fuori pericolo, di aver imparato ad essere paziente e di prendere ogni giorno come viene, ascoltando il suo corpo e prendendosi il tempo necessario per guarire, per la segretaria generale di Favo c'è "la normalità, l'aderenza alla realtà. Una narrazione in cui qualunque malato oncologico si può rispecchiare".  "E' esattamente così – continua – si sta come su un'altalena, ci sono dei giorni buoni e dei giorni meno buoni, sia fisicamente che psicologicamente". Kate, "esattamente come fanno tutti, ha rimodulato i suoi tempi di vita in base alla condizione psicofisica del momento, cercando di concentrare le risorse prima di tutto su se stessa, per poter affrontare le cure, e poi sugli effetti più cari, limitando quello che in questo momento diventa più marginale, non essenziale. Quello che ci restituisce ancora è la riflessione sul tempo che ci è dato di vivere, su quanto è prezioso e lo dobbiamo utilizzare nel migliore dei modi, consapevoli dei limiti che ci sono imposti per un certo periodo dalla malattia e dai trattamenti".  La storia di Kate fa pensare anche al tema dei giovani adulti che si ammalano e ai segnali che arrivano da alcuni studi, secondo cui i casi in queste fasce d'età sono in aumento. "Io mi sono ammalata giovane ormai 30 anni fa", riflette Iannelli, che aveva 25 anni allora e conosce bene questa realtà. "Se fosse confermata questa tendenza – dice – va posta particolare attenzione a questo, perché cambia completamente anche l'approccio e il paradigma di cura. Se stiamo trattando una giovane donna o un giovane uomo in un momento in cui si sta costruendo la vita futura, e si può pensare a una guarigione o cronicizzazione della malattia e a un'aspettativa di vita comunque lunga, allora anche la scelta dei trattamenti terapeutici deve tenerne conto. Dobbiamo pensare oggi di preservare la fertilità per evitare che domani il guarito non possa avere dei figli. Dobbiamo pensare oggi a eventuali effetti collaterali che potrebbero danneggiare altri apparati, come il cardiocircolatorio. C'è tutto un ragionamento che cambia se la diagnosi riguarda una persona giovane. Vanno considerate tutte le ricadute nell'affrontare le scelte in ambito terapeutico e sanitario, anche avendo molto chiaro quello che è il resto della vita, la famiglia e il lavoro, l'inclusione nella società. Aspetti che possono essere pregiudicati in maniera anche grave e irreversibile".  —internazionale/esteriwebinfo@adnkronos.com (Web Info)

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