Il Myanmar (Birmania) non riesce a trovare tregua. Anche oggi nuove proteste contro il colpo di stato del 1 febbraio che ha rovesciato il governo civile di Aung San Suu Kyi.
La repressione dell’esercito, promotore del colpo di stato, ha causato 55 morti. All’indomani di una nuova riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, divisa sulla risposta agli “appelli disperati” della popolazione, la mobilitazione non si indebolisce in tutto il Paese.
A Yangon, la capitale economica, la polizia ha demolito le barricate erette dalla popolazione. Ha lanciato gas lacrimogeni e granate stordenti per disperdere i raduni dei manifestanti. Manifestazioni sono in corso anche a Naypyidaw e a Lashio, nello Stato Nord-Occidentale di Shan.
Birmania, non solo protesta in Myanmar
Nella città di Loikaw centinaia di persone, compresi insegnanti in uniforme verde e bianca, hanno esposto cartelli che invitano alla disobbedienza civile. “La nostra rivoluzione deve vincere”, “Se vai a lavorare, aiuti la dittatura”, uno degli slogan intonati dai manifestanti.
Gli organi di Stato hanno esortato i funzionari a tornare al lavoro, in caso contrario “saranno licenziati dall’8 marzo“. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu che si è riunito ieri a New York non ha condannato il colpo di stato militare. Principalmente a causa del potere di veto di Cina e Russia. L’inviata speciale delle nazioni Unite per il Myanmar, Christine Schraner Burgener, ha dichiarato: “fermare la violenza. E ripristinare le istituzioni democratiche dopo la morte di manifestanti innocenti e pacifici uccisi da proiettili veri”.