(Adnkronos) – "La profilazione molecolare è una parte fondamentale della diagnosi nella leucemia mieloide acuta". Lo ha sottolineato Maria Teresa Voso, professore ordinario di Ematologia all'Università Tor Vergata e responsabile del laboratorio di Diagnostica avanzata oncoematologica del Policlinico Tor Vergata di Roma, in occasione del media tutorial realizzato con Servier sulla frontiera più avanzata dell'oncologia di precisione, che si è tenuto questa mattina a Roma. "La leucemia mieloide acuta è un tumore del sangue che colpisce ogni anno in Italia circa 2.100 persone. E' una malattia ematologica tra le più insidiose e difficili da trattare, che richiede cure tempestive", spiega la specialista. "I progressi nel campo dell'analisi molecolare e del sequenziamento del Dna – evidenzia Voso – hanno permesso di identificare mutazioni genetiche ricorrenti, non rilevabili con i test citogenetici standard. Le Linee guida internazionali raccomandano l'esecuzione dei test genetici al momento della diagnosi in tutti i pazienti. Fino al 50% presenta almeno una mutazione potenzialmente 'actionable' per una terapia mirata. Le mutazioni a carico dei geni Idh sono tra le più comuni: quelle di Idh1 sono presenti in circa il 10% dei casi, quelle di Idh2 nel 10-15%". La Commissione europea ha approvato ivosidenib in associazione con un agente ipometilante, azacitidina, per il trattamento di pazienti adulti con leucemia mieloide acuta di nuova diagnosi con mutazione di Idh1, che non sono idonei a ricevere la chemioterapia di induzione standard. "Nello studio Agile, pubblicato sul 'New England Journal of Medicine' – riferisce l'esperta – la terapia mirata con ivosidenib in combinazione con azacitidina in prima linea ha triplicato la sopravvivenza globale mediana rispetto a placebo e azacitidina, 2 anni contro 7,9 mesi". Si tratta di un risultato importante per una malattia insidiosa come la leucemia mieloide acuta.  "Anemia, stanchezza, pallore, sanguinamenti ed ematomi, legati alla carenza di piastrine, sono i principali sintomi – descrive Voso – La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi oggi è di circa il 30%". Le percentuali sono inferiori per coloro che non sono idonei alla chemioterapia intensiva. "La maggioranza dei casi – prosegue l'esperta – si presenta in età avanzata e l'età media alla diagnosi è di 69 anni. I pazienti anziani o fragili non sono in grado di tollerare la chemioterapia intensiva standard, seguita dal trapianto allogenico di cellule staminali, se indicato. Per questo, nei casi in cui è presenta la mutazione del gene Idh1, la possibilità di poter accedere alla terapia mirata con ivosidenib, in combinazione con azacitidina, rappresenta un'opportunità importante per molti pazienti".  —salutewebinfo@adnkronos.com (Web Info)

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